Intervistato per SuperEva (se giochiamo con le parole, se le liberiamo, finisce che liberiamo anche noi)



Ci siamo spesso immaginati gli alieni come esseri ostili e spaventosi ed abbiamo ipotizzato reazioni bellicose ad una loro eventuale «venuta» sulla Terra.
Non è detto però che un essere arrivato da lontano debba per forza entrare in comunicazione con le alte sfere del potere o della scienza: perché non tentare il primo approccio con un bambino? Quante cose potrebbe osservare e imparare sugli uomini, se solo avesse la possibilità di comprendere il nostro linguaggio!
E’ proprio questo il primo problema che Simone, il protagonista, si trova a risolvere quando, dalla finestra entra un extraterrestre, tale Lak, venuto sulla Terra per scrivere un libro sui terrestri, il «Paroliere spaziale».
L’idea principale che sta alla base del simpatico «Parapista che cipista», come potete immaginare, è molto originale, anche se è possibile trovare altri esempi di questo genere nella letteratura per ragazzi e non, e se dovessi cercare alcuni buoni motivi per consigliare ai vostri figli – ma non solo a loro - il libro di Antonino Pingue, non avrei che l’imbarazzo della scelta.
Innanzitutto le invenzioni linguistiche: il linguaggio, spesso vissuto come qualcosa di standardizzato, diventa vivo, un oggetto da modellare e da plasmare per creare, in ogni pagina, nuove trovate, rese ancora più divertenti da una serie di equivoci.
Poi la struttura narrativa, che vede affiancate alla storia principale, una serie di altri racconti dal sapore di favola o, persino, di mito.
Come in un gioco di scatole cinesi vi troverete a vivere al tempo dei dinosauri o quando gli occhiali ancora non esistevano e conoscerete una strega rinchiusa in una torre (non è la solita strega, però!) e una ragazzina muta, Schizzo Fetente, amatissima figlia del professor benemerenza…
Infine, per usare un’immagine usata in altra sede dallo stesso autore, che cosa c’è di meglio di buone storie, storie che stimolano la fantasia, ma che fanno anche riflettere, per trasmettere ai ragazzini il «virus» del lettore accanito?
Insomma, visto il periodo, è il libro ideale da leggere durante le vacanze!
Come spesso capita, una lettura rimanda ad altre precedenti, magari lontane nel tempo, che risvegliano però legami e sensazioni dimenticate.
Nel leggere «Parapista che cipista» non ho potuto fare a meno di pensare – l’autore non me ne vorrà per questo paragone! – al grande, anzi, gigantesco Roald Dahl e alle sue indimenticabili storie, prima fra tutte «Il GGG»: con il suo strano modo di esprimersi ed un aspetto così particolare, il Grande Gigante Gentile non potrebbe benissimo essere un alieno, proprio come Lak?!
Ma come può essere nata l’idea di questo libro? Ce lo spiega direttamente il suo autore…

Antonino Pingue
- Io ho uno zio tutto pazzo che è fissato per le lingue, ne conosce 4 o 5. Una volta a Piccadilly Circus a Londra, si mise a fermare la gente sostenendo che l’iscrizione che si trova al centro della piazza conteneva un errore di sintassi. Figurati gli inglesi che sono così orgogliosi della loro lingua… ci mancò poco che lo arrestassero.
La prima idea è venuta da là.
Ho pensato: e se arrivasse sulla Terra un extraterrestre, pieno di strampalate teorie linguistiche come mio zio, cosa ne salterebbe fuori? Un macello sicuramente! Poi ho inventato Simone, tormentato dalla sua maestra e dalla grammatica che non vuole entrargli in testa. Mi sembravano una bella coppia e ho cominciato a scrivere le loro avventure.
Mi sono ispirato anche alle «tabelline di Corrado». Non so se lo ricordi, ma tanti anni fa uscirono dei 45 giri (cavolo, i 45 giri!) dove Corrado (il presentatore) cantava delle canzoncine inventando una storia su ogni tabellina…. la tabellina del due, la tabellina del tre e così via. Me le regalò mia madre, perché il sottoscritto, come Simone, era piuttosto refrattario alla scuola. Il risultato fu sconvolgente: imparai tutti i ritornelli a memoria e neanche una tabellina. Li trovavo fantastici, una specie di vendetta contro la matematica. Da sganasciarsi dal ridere.
S.E. E l’idea di una lingua così strana?
A. P. - Creare una lingua per Lak è venuto naturale. Fin da piccoli ci insegnano che quando incontri una persona devi dirgli: «buon giorno». E quando la saluti: «arrivederci». Ma ci siamo mai chiesti perché bisogna dire proprio così?
Ecco perché nel mio libro arriva, di punto in bianco, un extraterrestre a cambiare tutto. Lui quando saluta dice: «Pazza li panza».
A parte gli scherzi, l’idea di fondo è che le parole, con le loro regole, contro regole, eccezioni, e contro eccezioni, possono essere un’ottima occasione per inventare una storia. Qualcosa del genere l’ha fatta anche Calvino con «Le Cosmicomiche», solo che lì al posto delle parole c’erano le ipotesi scientifiche. Ma il procedimento è uguale. Quello a cui tenevo era dare la sensazione che le parole fossero qualcosa di vivo, piene di segreti, giochi e equivoci. Per questo è così avventuroso poi leggere un libro. Non a caso l’ultima parola che Lak e Simone affrontano è proprio «Libro»… però non vi dico cosa scoprono e dove lo scoprono.
S.E. Ma quanto impegno occorre per scrivere un libro così ricco di trovate?
A. P. - Impegno? Tanto! Scrivere è sempre complicato, anzi è proprio uno sport estremo, ma è anche divertente. A questo proposito devo ringraziare tutti quelli che mi hanno aiutato. Penso ad esempio alla mia editor Sarah Farina, a Lorenza Sala, e a tutta la banda che compone la Mursia. Editore in testa.
S.E. Il tuo libro sembra però contenere più di un livello di lettura, ovvero un messaggio rivolto anche al lettore adulto…
A. P. - Grazie lo considero un complimento. Io sono partito dal presupposto che i bambini sono piccoli adulti. Ma vale anche l’opposto, davanti ad una bella storia, infatti, diventiamo tutti un po’ bambini. O no?
Quel «qualcosa in più» di cui parli nasce probabilmente dal fatto che la materia riguarda anche noi adulti: quando parliamo, quando scegliamo le parole per far colpo, quando scriviamo una lettera d’amore o un curriculum vitae, siamo tutti un po’ come Lak e Simone. E come loro abbiamo voglia di prenderci le nostre rivincite. In fondo se giochiamo con le parole, se le liberiamo, finisce che liberiamo anche noi.

30 maggio 2003