Dunque il Gay Pride si farà (GayPride Roma 2000)





Dunque il Gay Pride si farà; dopo lunghe polemiche la manifestazione internazionale dell’orgoglio omosessuale e lesbico si farà per le strade di una Roma santificata.
In mezzo ai pullman di pellegrini sempre più sudati con l’avanzare di un’estate afosa e cittadina, si mescoleranno per una settimana un’ondata di omosessuali, che secondo iconografia, dovrebbero essere festanti e nudi, ballanti e sculettanti, ammiccanti e erotici.
Ma sarà poi vero tutto questo?

Certo poco vestiti i pellegrini già lo sono. Hanno fazzolettini annodati alla cintura o al marsupio e non certo al collo, troppo impegnato a sudare. Con i loro pantaloncini colorati mostrano quasi sempre pelli bianche e arrossate dalla canicola incipiente. Sandali da cui ammiccano pollicioni, o scarpette dalla suola di paglia. Pochissime ciabatte. Alcuni robuste e virili scarpe da ginnastica pronte a scalare i sette colli. Arrivano, arrivano come arriveranno gli altri, sbarcando a frotte. Li incontri in fila alla stazione Termini seguire come pulcini le regole di Lorenz mentre la loro mamma papera è impegnata a portarli lungo un percorso corroborante (i pellegrini appaiono tutti in coda, tutti sempre, eternamente in attesa di entrare o mettersi in fila). E non possiamo nascondere che qualche pellegrina/pellegrino, impreziosito dalla rapida abbronzatura, rilasci un sulfureo erotismo. I loro occhi affaticati, all’ombra delle grandi basiliche, tradiscono un piacere non del tutto immune all’attrazione. Pensiamo a certi seni sudati e scomposti dal “sali e scendi”, dallo sporgersi a fotografare panorami. Pensiamo a muscolose caviglie nei loro bermuda bianchi, che marciano lungo i Fori Imperiali e inclinano glutei alle benedizioni.
Presto, però, i romani assisteranno a questo nuovo arrivo. Altri pellegrini affolleranno stazioni, parcheggi, metropolitane (incomplete nonostante siamo ormai a metà del giubileo). Anche loro si vedranno in fila. Anche loro avranno la loro mamma papera, anche loro correranno a un chiosco  a comprarsi una coca cola pagandola oro. E anche loro, ci giuriamo, sentiranno caldo. Dove è la differenza? Entrambi avranno l’aria di essere stati trasportati da intraprendenti organizzazioni in un territorio sconosciuto che gli rimarrà sconosciuto. Entrambi si muoveranno sperduti in una città elevata a simbolo, spersonalizzata e incongrua, dove l’unica cosa che riconosceranno saranno altri pellegrini. Entrambi si conteranno, sentendosi in questo essere massa, festa e comunità, andando a mangiare negli stessi locali e nei medesimi alberghi di larghi sorrisi confezionati. Vittime e complici di potenti organizzazioni capaci di spostare ordinatamente milioni di persone lungo il pianeta, usufruendo dei media, delle tecnologie, dei satelliti, delle buone relazioni diplomatiche, dei visti di sbarco, dei passaporti, delle valige, dei pulman con aria condizionata, della ricezione alberghiera, dell’ammiccamento alle bellezze mediterranee, della “pummarola” e del buon vino italiano. Comprendiamo quindi il bisogno del vaticano di allontanare due eventi che come tali hanno molti punti in comune.
Non è quindi nell’estraneità che si consuma lo scontro a cui assistiamo ma nella profonda complementarità, nella paura, quindi, di essere confusi.
Il Gay Pride assomiglia pericolosamente ai pellegrini che vengono a Roma per il giubileo e questa confusione genera in sé una comicità oscena. Oscena come sempre oscena è stata agli occhi del cattolicesimo la comicità; perché essa, liberando il riso, aguzzando l’occhio nel paradosso, scavalcando costrizioni e morali, libera inevitabilmente una dose di verità e di riflessione. Non è la differenza che spaventa la chiesa ma proprio la similitudine. E’ il terrore che il ragazzo gay si mescoli irriconoscibile al fantomatico, quanto illusorio, pellegrino etero. E’ la paura che la normalità di individui che si distinguono per fede e non per orientamento sessuale (quanti, tanti, omosessuali e lesbiche sono anche sinceri cattolici!) possano affollare piazza San Pietro pregando con il Papa. Falso è il timore che questa massa di gente possa in qualche modo apparire blasfema o irriverente, molto più grande è la paura che questi ragazzi si ritrovino alla fine della loro festa, per quanto allegra e pittoresca, a pregare ne più e ne meno degli altri.
E’ una parità che viene a realizzarsi spontaneamente per le vie di questa città ecumenica. Una parità inevitabile e imprevista, quindi incontrollabile, che non assomiglia alle geometriche transenne collocate lungo il colonnato del Bernini (quel grande abbraccio). Qualcosa che regala quella spontaneità tanto assente in questa matematica, millimetrica, parata scandita da un glaciale calendario. E’ la paura che la signorotta dal culo pesante possa trovarsi affianco al signorotto dal culo scottante e scoprirsi uguale, non solo non riconoscendosi, ma addirittura ritrovandosi nel medesimo credo. Quanto ci sia di blasfemo e ingiusto nella tenace opposizione da parte della chiesa lo lasciamo al vostro giudizio! Il Gay Pride è un evento di questo Giubileo, un giubileo che si voleva di tutti e che lo sarà, nonostante la visione ristretta che regna sotto il cupolone.
C’è quindi da gioire, come cristiano, come uomo, come gay e come etero se non fosse per una certa aria di fessura che spira da altri colli. Non vi è da stupirsi, né da scandalizzarsi,  che la destra italiana abbia rumorosamente starnazzato contro il Gay Pride. Oltre ad inseguire un consenso da cui ormai è ossessionata, girandosi come la bandiera verso il buon vento (ad onor del vero sono bravi in questo). La destra ha insita in sé, nel suo fanatismo (come lo stakanovismo comunista) il culto della virilità; anch’esso palesemente adiacente all’impulso omosessuale. Non possono che farci tenerezza, quindi, quei ragazzotti, che infervorati nel loro fascismo spolverato hanno alzato trampoli per le piazze di Roma, sempre la santa Roma, annunciando: “NON VOGLIAMO FROCI QUI!”. Certo bisognerebbe spiegare a questi giovani virgulti che gli omosessuali e le lesbiche non atterreranno, come merce di importazione da aerei [trans] oceanici.
Quello che ci appare triste, invece, è un certo buon senso, colorato di ipocrisia. Una dose di cortese ragionevolezza da salotto. Crudele e cieca, e questa si, pericolosa. Parlo di quel sorriso rammaricato che abbiamo visto balenare nel volto di molte cravatte, comprensivo e pacato, ma altresì non meno crudele. Di quei cortesi signori e signore che girandosi anelli preziosi al dito (magari anelli cardinalizi), hanno cortesemente chiesto, invocato, una maggiore discrezione. Parlo dell’opportunità e della inopportunità… come se essere omosessuali o lesbiche fosse equiparabile al bisogno di esibirsi in qualche inevitabile peto, che certo (liberali e aperti come sono!), non si può negare, ma che etichetta vuole sia espletato al gabinetto. Dunque nessuno vuol rigettare codeste pulsioni ma che esse siano nascoste, discrete, non disturbino la buona creanza che è valore alto e inviolabile.
Che la discrezione talvolta sia una virtù non v’è dubbio, ma questa che le nostre cravatte chiedono non è discrezione ma consensuale omertà. Bisognerebbe far riflettere codesta gente su quante volte al giorno uscendo per strada con una persona cara, con la propria moglie/marito, ragazzo o fidanzato, si lasciano andare ad un bacio, ad una carezza, ad un sorriso. Bisognerebbe chiedere a questi nodi stretti di stoffe preziose, perché: perché un ragazzo gay o una ragazza lesbica dovrebbero rinunciare alla stessa libertà di espressione? E quanta violenza mascherata e ipocrita si subisce a sentirsi definire “inopportuni”( e non si dica che inopportuna era solo la manifestazione, perché di manifestazioni a Roma ve ne sono tante oggi e domani; inopportune sono le persone che vi parteciperanno, è chiaro!)?
Scarsa memoria hanno codesti completi, codesti vestitini estivi parlanti, altrimenti si ricorderebbero un passato recente in cui con altrettanto buon senso una nazione accettò leggi razziali violente e ingiuste, mitigandole, almeno all’inizio, in una cortese buona creanza. Mi viene in mente “I giardini dei Finzi Contini” e tutte le famiglie ebree italiane che all’inizio accettarono la cortese richiesta di sforzarsi di non essere così visibili, onde favorire una pacifica convivenza. Alle cravatte parlanti e contrite, vorrei ricordare che la convivenza, se proprio bisogna sentirsi così diversi, nasce dalla parità. Altrimenti, simili cortesi compromessi, portano, come hanno portato nel passato, alla violenza e al sopruso ( e non voglio usare la parola sterminio). E dire che solo pochi giorni addietro proprio il Papa, e bardato di tutto punto, ha chiesto scusa per quell’omertà che compatta ha guardato altrove, forse il crocefisso, mentre i nazisti e i fascisti deportavano e sterminavano ebrei, omosessuali e zingari.


Roma, Giugno 2000 (scritto per Il Manifesto)


Antonino Pingue © 2010 Todos los derechos reservados.

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